Nel 2025, la Corte di Cassazione ha segnato una svolta importante nella giurisprudenza fiscale italiana con una sentenza che coinvolge direttamente le società di comodo e il diritto al rimborso dell’IVA. Il principio fondamentale espresso nella decisione è che non si può negare automaticamente il rimborso dell’IVA a una società ritenuta “di comodo” solo sulla base di criteri presuntivi. Secondo la Suprema Corte, una simile prassi è in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, che tutela il principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto.
Sommario
Questa sentenza si allinea a quanto già sancito in più occasioni dalla Corte di Giustizia UE, secondo cui l’IVA è un’imposta neutra per le imprese e, di conseguenza, ogni restrizione al diritto di detrazione o rimborso deve essere giustificata in modo concreto e non presuntivo.
In sostanza, il solo fatto che una società non abbia superato determinati parametri di operatività (quelli previsti per classificare le società di comodo) non è sufficiente per negare il rimborso dell’IVA. La Cassazione afferma quindi che deve essere il Fisco a provare concretamente l’inesistenza dell’attività economica reale, e non la società a dover dimostrare di essere “attiva”.
Il caso concreto
La sentenza della Corte di Cassazione n. 21887 del 2025 prende spunto da un caso reale che tocca un tema particolarmente delicato per imprese e professionisti fiscali: il diritto al rimborso dell’IVA per una società di comodo. Si trattava di una S.r.l. operante nel settore turistico, che aveva chiesto per l’anno d’imposta 2009 la disapplicazione del regime delle società non operative previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994.
La richiesta era giustificata da un evento eccezionale: il sequestro penale dell’immobile aziendale destinato all’attività, a causa di presunti abusi edilizi commessi dalla precedente proprietà. Questo evento, completamente indipendente dalla volontà della società, aveva impedito lo svolgimento dell’attività commerciale e dunque la possibilità di raggiungere le soglie minime di ricavi previste dalla normativa anti-elusiva per non essere considerati “di comodo”.
L’Agenzia delle Entrate aveva però negato il rimborso IVA relativo al 2010, ritenendo la società “non operativa”, e quindi soggetta alle limitazioni previste dalla normativa.
In primo grado, la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) aveva accolto le ragioni della società, riconoscendo la natura oggettiva e straordinaria dell’evento. Tuttavia, in secondo grado, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) ha ribaltato la sentenza, sostenendo che non c’erano prove sufficienti a dimostrare un impedimento insormontabile tale da giustificare la disapplicazione della norma.
Cassazione 2025
A seguito della decisione della CTR sfavorevole, la società ha presentato ricorso in Cassazione, che è stato accolto. Il punto centrale della decisione è rappresentato dal richiamo al diritto dell’Unione Europea, in particolare alla sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 7 marzo 2024 (causa C-341/22 – Feudi di San Gregorio).
In questa pronuncia, la CGUE ha stabilito due principi fondamentali:
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Un soggetto passivo IVA non può essere escluso dal diritto alla detrazione o al rimborso solo perché non ha raggiunto soglie minime di ricavi;
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Negare il rimborso IVA per il solo motivo dell’insufficienza dei ricavi costituisce una violazione dei principi di neutralità e proporzionalità dell’IVA, cardini della Direttiva 2006/112/CE.
La Corte di Cassazione italiana ha quindi affermato che l’articolo 30 della Legge 724/1994, che disciplina le società di comodo, deve essere disapplicato ogniqualvolta produca effetti in contrasto con i principi e le tutele garantite dal diritto comunitario.
Il compito del giudice tributario, secondo la Suprema Corte, non può limitarsi alla verifica delle soglie numeriche previste dalla legge nazionale, ma deve accertare se la società ha effettivamente svolto operazioni rilevanti ai fini IVA, anche in assenza di risultati economici apprezzabili.
La prova dell’effettivo esercizio di attività economica resta necessaria, come stabilito dall’art. 9 della Direttiva IVA, ma non può essere sostituita da presunzioni assolute basate solo sui ricavi.

Implicazioni
La sentenza della Cassazione n. 21887/2025 apre una nuova fase nei rapporti tra contribuenti e amministrazione finanziaria, soprattutto in relazione alle società di comodo e al diritto al rimborso dell’IVA. Il messaggio è chiaro: non è più possibile negare il rimborso IVA in modo automatico e generalizzato solo perché una società non supera le soglie di operatività previste dalla normativa italiana.
Per i professionisti fiscali e i consulenti aziendali, questo comporta un cambio di strategia nella gestione delle contestazioni. In primo luogo, sarà fondamentale documentare con precisione l’effettiva esistenza dell’attività economica, anche quando questa non genera ricavi consistenti o appare stagnante per ragioni oggettive (come nel caso del sequestro penale dell’immobile).
In secondo luogo, le imprese potranno far valere direttamente la prevalenza del diritto UE di fronte ai giudici tributari, chiedendo la disapplicazione dell’art. 30 della L. 724/1994 quando ne derivino effetti restrittivi ingiustificati.
In sede di accertamento e contenzioso, si rafforza il ruolo del principio di proporzionalità e del diritto alla detrazione, che non può essere sacrificato sull’altare di presunzioni anti-elusive. L’amministrazione finanziaria dovrà quindi motivare con maggiore rigore eventuali dinieghi, producendo prove specifiche di inattività reale o di abusi.
Questa svolta giurisprudenziale non elimina i controlli, ma impone un approccio più equilibrato e coerente con la normativa comunitaria, a tutto vantaggio della certezza del diritto.
Normativa nazionale vs diritto comunitario
La pronuncia della Cassazione del 2025 evidenzia un conflitto non più sostenibile tra la normativa italiana sulle società non operative e i principi sanciti dal diritto dell’Unione Europea, in particolare nella Direttiva IVA 2006/112/CE. Questo scontro giuridico ruota attorno a un punto cardine: la neutralità dell’IVA, ovvero il diritto, per qualsiasi soggetto passivo, di detrarre o ottenere il rimborso dell’imposta pagata sugli acquisti legati alla propria attività.
In Italia, la disciplina prevista dall’art. 30 della Legge 724/1994 introduce una presunzione legale assoluta di inattività economica basata su parametri numerici (ricavi, asset, costi), il cui mancato superamento fa automaticamente scattare restrizioni, tra cui:
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l’impossibilità di compensare o richiedere il rimborso dell’IVA;
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l’applicazione di redditi minimi presunti.
Tuttavia, secondo la giurisprudenza europea, queste presunzioni violano i principi fondamentali di proporzionalità, effettività e neutralità dell’imposizione indiretta. La Corte di Giustizia ha più volte ribadito che il diritto alla detrazione o al rimborso non può essere negato in assenza di frode o abuso dimostrati. Il solo dato contabile, quindi, non è sufficiente a giustificare la negazione di un diritto riconosciuto a livello comunitario.
Questa divergenza obbliga i giudici nazionali a disapplicare le norme interne quando risultano in contrasto con quelle europee, in forza del principio del primato del diritto UE, sancito anche dalla nostra Costituzione (art. 117, comma 1).
Come tutelare il diritto al rimborso IVA
Con il nuovo orientamento sancito dalla Cassazione nel 2025, le imprese classificate come “di comodo” avranno finalmente strumenti concreti per difendere il proprio diritto al rimborso IVA, anche in presenza di ricavi sotto le soglie minime previste dall’art. 30 della L. 724/1994.
Per le aziende coinvolte in accertamenti fiscali o contenziosi, e per i professionisti che le assistono, diventano essenziali alcune strategie difensive mirate:
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Dimostrare l’effettivo svolgimento di attività economica, anche se non profittevole, mediante:
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contratti attivi;
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fatture emesse;
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documentazione bancaria;
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pagamenti IVA periodici;
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eventuali cause oggettive che abbiano ostacolato la piena operatività (es. sequestro, pandemia, crisi di settore).
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Richiamare la giurisprudenza europea, in particolare la sentenza CGUE Feudi di San Gregorio (C-341/22), e la recente ordinanza Cassazione 21887/2025, per chiedere la disapplicazione della norma interna.
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Contestare l’uso esclusivo di presunzioni legali, sottolineando l’assenza di una prova specifica da parte dell’Agenzia delle Entrate in merito a un’eventuale simulazione o abuso.
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Evidenziare il principio di proporzionalità: il diniego totale del rimborso IVA, in assenza di frode o evasione, risulta sproporzionato rispetto all’obiettivo di contrasto all’elusione.
La nuova giurisprudenza apre anche la strada a richieste di rimborso pregresse, per contribuenti che si sono visti negare il diritto negli anni passati, qualora sussistano i presupposti per una revisione.

Agenzia delle Entrate
La sentenza n. 21887/2025 della Cassazione rappresenta non solo un monito per i giudici tributari, ma anche una correzione di rotta per l’Agenzia delle Entrate. Le modalità con cui finora venivano gestite le società non operative, in particolare con riferimento al diniego automatico del rimborso dell’IVA, non sono più compatibili con l’ordinamento dell’Unione Europea.
D’ora in avanti, l’Agenzia dovrà modificare i propri orientamenti interni e le prassi accertative, spostando l’attenzione dal mero dato numerico (come il mancato superamento dei ricavi minimi) alla verifica sostanziale dell’attività economica svolta dal contribuente.
In concreto, questo comporta:
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una necessità di motivazione più approfondita negli atti di diniego;
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l’onere di fornire prove concrete in caso di contestazioni legate all’operatività della società;
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la riduzione dell’uso di presunzioni assolute, in favore di un’analisi caso per caso.
Inoltre, potrebbero essere necessari interventi normativi per adeguare la disciplina delle società di comodo ai principi europei, introducendo ad esempio presunzioni relative o meccanismi di verifica più flessibili e coerenti con la realtà aziendale.
La Cassazione ha dunque tracciato una strada che impone una revisione strutturale dell’approccio anti-elusione, più rispettosa dei diritti dei contribuenti e dei principi cardine dell’IVA. Se non si interverrà in modo sistemico, si rischia un’ondata di contenziosi e, soprattutto, nuove bocciature in sede europea.
Rimborsi IVA negati in passato
Uno degli effetti più rilevanti della sentenza della Cassazione n. 21887/2025 riguarda la possibile riapertura di casi già chiusi, nei quali il rimborso IVA era stato negato a imprese ritenute “di comodo”. In molti casi, il rigetto si era basato unicamente sul mancato superamento dei parametri di operatività previsti dalla legge 724/1994, senza una valutazione sostanziale della reale attività dell’impresa.
Ora, grazie al principio del primato del diritto europeo e all’interpretazione vincolante della CGUE, le società che hanno subito un diniego potrebbero valutare di impugnare in autotutela il provvedimento, oppure di presentare ricorso straordinario se rientrano nei termini. Inoltre, se è pendente un contenzioso, è possibile produrre la nuova giurisprudenza a proprio favore, anche in secondo grado o in Cassazione.
Occorre però considerare con attenzione alcuni aspetti:
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se il rigetto del rimborso è divenuto definitivo (es. per mancata impugnazione nei termini), è più difficile ottenere la riapertura, salvo errori evidenti o sopravvenute sentenze favorevoli assimilabili;
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i termini di decadenza per la richiesta del rimborso IVA devono essere ancora validi (tipicamente 2 anni dalla data del versamento);
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è necessario dimostrare comunque l’effettiva attività economica, anche se con ricavi contenuti.
In conclusione, si apre una finestra importante per recuperare crediti IVA ingiustamente negati, ma servono analisi tecniche dettagliate e il supporto di un commercialista esperto in contenzioso tributario.
Considerazioni finali
La sentenza della Cassazione n. 21887/2025 segna un cambio di paradigma nell’approccio fiscale italiano alle società di comodo. La Corte ha chiaramente stabilito che la normativa interna non può sacrificare il diritto al rimborso IVA in nome di presunzioni rigide e automatiche. Quando la normativa nazionale si scontra con quella europea, prevale il diritto dell’Unione e i giudici tributari italiani sono chiamati a disapplicare le disposizioni interne in contrasto con i principi comunitari.
Questo nuovo orientamento restituisce certezza e giustizia fiscale a migliaia di imprese, spesso penalizzate da fattori estranei alla loro volontà, e costrette a subire il doppio danno dell’inattività e della negazione del credito IVA. Si ristabilisce così un equilibrio più equo tra le esigenze di contrasto all’elusione e il rispetto dei diritti fondamentali dei contribuenti, come la neutralità dell’IVA e la proporzionalità delle misure fiscali.
Il futuro richiederà un adeguamento normativo e interpretativo da parte dell’amministrazione finanziaria, che dovrà abbandonare automatismi e presunzioni in favore di un’analisi concreta dell’attività economica svolta. Nel frattempo, le imprese potranno tutelarsi meglio, presentando documentazione adeguata e facendo valere la giurisprudenza europea nei contenziosi.
Chi è stato penalizzato in passato potrà, con l’assistenza di un esperto, verificare se ci sono margini per ottenere giustizia e rimborsi negati. In un sistema fiscale che vuole dirsi moderno, non può esserci spazio per presunzioni assolute che ledono diritti riconosciuti a livello europeo.

