Professioni del piacere: la rivoluzione fiscale dell’ISTAT accende il dibattito su sesso, fisco e legalità
Sommario
Il confine tra legalità, moralità ed economia si fa sempre più sottile. Nell’ultima revisione della classificazione ATECO, l’ISTAT ha ufficialmente inserito i “servizi sessuali a pagamento” come voce riconosciuta, codificata e tassabile. Un cambiamento epocale che mette al centro del dibattito una realtà storicamente sommersa ma economicamente rilevante: il lavoro sessuale in Italia.
Escort, accompagnatrici, gigolò, dominatrici e altre figure professionali che operano nel mondo dell’intrattenimento per adulti trovano oggi un posto nella classificazione economica ufficiale. E con questo, emergono nuove prospettive fiscali, previdenziali, legali ed etiche. Ma cosa significa davvero “regolarizzare” questi servizi? Quali sono gli effetti economici, fiscali e sociali? E, soprattutto, è davvero possibile pagare le tasse sul sesso?
In questo articolo analizziamo nel dettaglio le nuove disposizioni ISTAT, il contesto normativo italiano ed europeo, i vantaggi e i rischi di questa classificazione, e come tutto ciò potrebbe cambiare il volto dell’economia sommersa legata alla prostituzione. Una riflessione tra fiscalità, diritti e realtà.
Il nuovo codice ATECO 2025
Con la revisione della classificazione ATECO entrata in vigore nel 2025, l’ISTAT ha introdotto ufficialmente una nuova voce che ha immediatamente sollevato interesse e discussione: “Servizi sessuali a pagamento”. La novità si colloca all’interno della più ampia classificazione ATECO 2025, sviluppata dall’ISTAT, in vigore da gennaio e operativa dal 1° aprile 2025, con l’obiettivo di allineare la tassonomia economica nazionale agli standard europei NACE Rev. 2.
All’interno della divisione 96, che – come spiegato dall’ISTAT nel comunicato ufficiale di dicembre 2024 – «è stata completamente ristrutturata prevedendo nuovi gruppi e nuove classi», è stato inserito il nuovo codice 96.99.92, dedicato ai “Servizi di incontro ed eventi simili”.
Tale voce comprende:
«Attività connesse alla vita sociale, ad esempio attività di accompagnatori e di accompagnatrici (escort), di agenzie di incontro e agenzie matrimoniali; fornitura o organizzazione di servizi sessuali, organizzazione di eventi di prostituzione o gestione di locali di prostituzione; organizzazione di incontri e altre attività di speed networking».
L’ATECO è un sistema di classificazione economica utilizzato in Italia per identificare in modo univoco le attività svolte da imprese e professionisti, ed è fondamentale sia per fini statistici che fiscali. Con l’introduzione di questo codice, l’ISTAT non solo riconosce la presenza e rilevanza economica del sex work, ma ne fornisce per la prima volta una definizione codificata, utilizzabile nei database ufficiali e, potenzialmente, anche ai fini fiscali e previdenziali.
È importante sottolineare che questo riconoscimento ha valore puramente statistico, e non comporta automaticamente la legalizzazione o regolamentazione dell’attività: la prostituzione in Italia non è reato se svolta in forma autonoma, ma resta penalmente sanzionato qualsiasi sfruttamento o intermediazione.
Tuttavia, il fatto che l’ISTAT includa ora questa attività tra quelle classificabili economicamente, segna un primo passo verso una possibile normalizzazione anche sul piano fiscale.
Sex work e fisco
L’introduzione del codice ATECO per i “servizi sessuali a pagamento” apre formalmente alla possibilità, per escort e sex worker autonomi, di inserirsi nel sistema fiscale italiano. Teoricamente, infatti, chi offre prestazioni sessuali in maniera indipendente – e quindi senza sfruttamento, intermediazione o favoreggiamento, che restano reati penali – può aprire una partita IVA, scegliere un regime fiscale (ordinario o forfettario) e pagare le tasse sul proprio reddito.
Ma come funziona, nel concreto, questa “tassazione del piacere”? Secondo gli esperti fiscali, i lavoratori autonomi del sesso potrebbero rientrare nel regime forfettario al 15% (o 5% per le nuove attività), dichiarando i compensi percepiti per le prestazioni e applicando l’aliquota agevolata sui redditi netti, calcolati tramite un coefficiente di redditività. In più, verserebbero i contributi previdenziali alla Gestione Separata INPS, come ogni libero professionista non iscritto ad albi.
Tuttavia, non mancano gli ostacoli. La mancanza di una normativa organica che riconosca pienamente il sex work come “professione” rende ambigua la posizione del lavoratore di fronte a controlli fiscali e giudiziari. La giurisprudenza, infatti, è ancora divisa: alcune sentenze riconoscono il diritto del sex worker a dichiarare redditi da lavoro autonomo, mentre altre li considerano proventi da attività illecite, non deducibili e non tassabili.
L’Agenzia delle Entrate, interrogata più volte sul tema, ha espresso posizioni prudenziali, ma non esclude – in presenza di partita IVA regolarmente aperta – la tassabilità dei redditi da attività sessuale svolta in autonomia e senza reati collegati. Il punto è proprio questo: la liceità formale dell’attività.
Prostituzione in Italia
Il sex work in Italia si muove da sempre in una zona grigia giuridica: la prostituzione in sé non è un reato, ma è priva di una regolamentazione specifica. La Legge Merlin del 1958 (Legge n. 75/1958) ha abolito le “case chiuse” e vietato qualsiasi forma di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione altrui. Tuttavia, la norma non criminalizza l’attività in sé se svolta in forma autonoma, individuale e non pubblica.
Questo ha creato un paradosso: il lavoro sessuale non è vietato, ma non essendo disciplinato, non è pienamente tutelato né riconosciuto come professione. Ecco perché, fino a oggi, sex worker ed escort non potevano operare alla luce del sole, pur agendo formalmente nella legalità.
L’inserimento del codice ATECO da parte dell’ISTAT rappresenta una certificazione statistica, ma non costituisce automaticamente un riconoscimento giuridico. Lo Stato, attraverso ISTAT, fotografa l’esistenza di un’attività economica diffusa, ma il Parlamento non ha ancora legiferato per disciplinarla. In sostanza, si può ora classificare l’attività nei dati economici ufficiali e potenzialmente tassarla, ma manca ancora una legge che definisca i diritti e i doveri dei lavoratori del sesso.
Nel corso degli anni, diverse proposte di legge – sia per la regolamentazione che per l’abolizione totale – si sono alternate in Parlamento, senza mai arrivare all’approvazione. Eppure, il fenomeno coinvolge un numero elevatissimo di persone (si stima tra le 70.000 e le 90.000 in Italia) e genera un mercato sommerso da miliardi di euro.
In mancanza di una normativa chiara, il riconoscimento fiscale resta un’operazione controversa: può un’attività priva di inquadramento normativo essere tassata regolarmente? E chi tutela questi lavoratori?
Un’economia invisibile da miliardi di euro
Il riconoscimento statistico dei “servizi sessuali a pagamento” da parte dell’ISTAT non nasce dal nulla. Dietro questa decisione c’è anche un’esigenza concreta: fotografare e quantificare un settore sommerso che, seppur informale, ha un peso economico rilevante. Secondo le stime più prudenti, il mercato del sex work in Italia genera tra i 3 e i 5 miliardi di euro l’anno, ma si tratta di una cifra destinata probabilmente a salire se si considerano le piattaforme online, i servizi di accompagnamento di lusso e le attività parallele (eventi, video, contenuti digitali).
Questo “mercato parallelo” è rimasto per decenni fuori da ogni conteggio ufficiale, pur rappresentando una fetta significativa di economia reale. Solo nel 2014 Eurostat ha spinto i Paesi membri dell’UE ad includere nei conti pubblici nazionali anche le attività illegali purché quantificabili, tra cui prostituzione, droga e contrabbando. L’Italia si è allineata, ma fino ad oggi si trattava solo di stime tecniche utilizzate per il calcolo del PIL, non di riconoscimenti fiscali o professionali.
Con l’aggiornamento ATECO 2025, l’ISTAT compie un passo ulteriore: riconosce che molti sex worker operano in modo autonomo, consapevole e strutturato, spesso con servizi organizzati e clientela fidelizzata, tanto da giustificare un inquadramento economico.
In un momento storico in cui lo Stato cerca nuove basi imponibili per far fronte al debito pubblico, non è un caso che si guardi anche a queste attività finora escluse dal circuito fiscale.
Resta però aperta una domanda: se il mercato del sesso muove miliardi, perché non creare un sistema chiaro, legale e tutelato per incanalarne i benefici fiscali e previdenziali?
Regolamentare il sex work
Mentre l’Italia continua a muoversi tra riconoscimenti fiscali impliciti e vuoti legislativi, altri Paesi europei ed extraeuropei hanno da tempo adottato modelli più chiari e strutturati per regolare la prostituzione. Le esperienze internazionali offrono uno spettro molto vario di approcci, dai più permissivi ai più restrittivi, ciascuno con ricadute specifiche sul piano fiscale, sociale e giuridico.
In Germania, ad esempio, la prostituzione è completamente legalizzata e regolamentata sin dal 2002. I sex worker possono aprire partita IVA, registrarsi presso l’autorità locale, versare tasse e contributi, accedere alla sanità e alla previdenza sociale. Esistono anche vere e proprie aziende del settore, con contratti regolari e diritti riconosciuti. Anche nei Paesi Bassi, il modello è simile: le case di tolleranza sono legali, soggette a controlli e tassazione, mentre chi lavora come escort può regolarmente dichiarare i propri redditi.
Diversa invece la situazione in Francia e Svezia, dove vige il cosiddetto modello neo-abolizionista: la prostituzione non è vietata, ma viene penalizzato il cliente, nel tentativo di scoraggiare la domanda. Questo modello ha sollevato numerose critiche da parte delle associazioni dei sex worker, secondo cui si finisce per aumentare la marginalizzazione e la pericolosità del mestiere.
Nel Regno Unito, il lavoro sessuale in forma autonoma non è illegale, ma è vietata ogni forma di organizzazione, come bordelli o agenzie, lasciando così i lavoratori in un limbo simile a quello italiano. In Nuova Zelanda, invece, la legge “Prostitution Reform Act” del 2003 è spesso citata come esempio virtuoso: decriminalizzazione, diritti del lavoratore, protezione sanitaria e tassazione trasparente.
Il confronto internazionale dimostra che regolamentare non significa incentivare, ma semplicemente riconoscere e tutelare una realtà esistente, spesso lasciata alla mercé dello sfruttamento. L’Italia, con il nuovo codice ATECO, sembra muovere un primo passo – ma serviranno anche coraggio politico e una visione chiara per colmare il gap normativo.
I vantaggi di una regolamentazione completa
Rendere il sex work un’attività legale, riconosciuta e regolamentata potrebbe generare benefici tangibili per lo Stato, per i lavoratori e per la società nel suo complesso. Il primo e più immediato vantaggio riguarda il profilo fiscale: incanalare nel sistema regolare un mercato da miliardi di euro significherebbe generare gettito fiscale costante e recuperare evasione, contribuendo a finanziare servizi pubblici e welfare.
Nel concreto, una regolamentazione porterebbe all’apertura di partite IVA per i lavoratori del sesso, con regimi forfettari o ordinari, versamento di contributi INPS, accesso alla copertura sanitaria, alla maternità e alla pensione. Inoltre, si potrebbero applicare norme sulla sicurezza sul lavoro, sulla privacy dei clienti, sul rispetto dei diritti fondamentali, evitando le condizioni di sfruttamento, violenza o coercizione a cui sono spesso esposte le persone in situazioni di marginalità.
Dal punto di vista sociale, la regolamentazione contribuirebbe a rompere lo stigma che circonda questa professione, riconoscendo dignità e diritti a chi la esercita per scelta, e aiutando le istituzioni a distinguere tra lavoro volontario e tratta di esseri umani. Questo consentirebbe un’azione più mirata e incisiva contro la criminalità organizzata, che oggi prospera grazie alla totale assenza di regole.
Infine, il controllo sanitario sarebbe enormemente potenziato: test regolari, campagne di prevenzione, tutela della salute pubblica. Tutto questo inserendo il sex work nel circuito legale, anziché lasciarlo nell’ombra, dove oggi si alimentano rischio, sfruttamento e ignoranza.
In sintesi, regolamentare significherebbe governare un fenomeno che, piaccia o meno, esiste e resiste da secoli. La scelta non è se esista o meno la prostituzione, ma se lo Stato voglia ignorarla o gestirla responsabilmente.
I limiti della regolamentazione
Nonostante i possibili vantaggi economici e sociali, l’idea di regolamentare il lavoro sessuale continua a dividere l’opinione pubblica e il mondo politico. Le critiche principali non riguardano solo l’aspetto morale o religioso, ma anche questioni di diritti umani, parità di genere e rischi di nuove forme di sfruttamento legalizzato.
Una delle principali obiezioni è che legalizzare la prostituzione normalizzerebbe l’idea che il corpo umano possa essere “messo a reddito” come qualsiasi altro bene o servizio, contribuendo alla mercificazione dei corpi, soprattutto femminili.
Alcuni movimenti femministi vedono nella regolamentazione una forma mascherata di patriarcato, che perpetua l’idea secondo cui il piacere (soprattutto maschile) possa essere acquistato, mentre chi offre il servizio resta in una posizione subordinata, spesso vulnerabile.
C’è poi il timore che una regolamentazione “superficiale” possa creare un mercato a due velocità: da un lato i sex worker regolari, spesso pochi e tutelati, dall’altro un’enorme fascia di attività che continuerebbe a operare in modo sommerso, per evitare tasse, registrazioni e controlli.
In altre parole, si rischierebbe di istituzionalizzare solo una parte “privilegiata” del sex work, lasciando ai margini proprio le persone più vulnerabili: migranti, transessuali, lavoratori senza documenti, vittime della tratta.
Un’altra critica riguarda il rischio di aumentare la domanda: alcuni studi, come quelli citati nei modelli nordici, mostrano come la legalizzazione possa favorire la percezione di “normalità” del servizio, incentivando nuovi clienti e creando effetti collaterali sul piano culturale e sociale, soprattutto nei giovani.
Infine, ci sono dubbi di tipo pratico: chi controllerebbe davvero il rispetto delle regole? Chi garantirebbe che la scelta di vendere prestazioni sessuali sia realmente libera e consapevole, e non indotta da condizioni di povertà, disagio o coercizione indiretta?
Queste domande sono centrali nel dibattito, e richiedono una visione politica ampia, capace di tenere insieme economia, diritti e tutela della persona.
Considerazioni finali
L’introduzione del codice ATECO per i servizi sessuali a pagamento da parte dell’ISTAT rappresenta un punto di svolta silenzioso ma potentissimo: per la prima volta, lo Stato italiano fotografa con precisione un’attività da sempre vissuta ai margini, riconoscendone il valore economico e la necessità di essere censita, analizzata e – forse – tassata.
Ma non basta un codice per risolvere un tema tanto complesso. Serve un quadro normativo organico, moderno e umano che metta al centro le persone, prima ancora dell’economia.
Le prostitute, gli escort, i sex worker non sono numeri nel PIL: sono lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, spesso vulnerabili, che meritano strumenti di tutela, libertà di scelta e dignità professionale.
La questione non è più se il sex work esista – esiste, ed è in crescita – ma come lo Stato voglia gestirlo: fingere che non ci sia, lasciarlo in mano all’illegalità, o creare regole chiare per distinguere il lecito dall’illecito, la libera scelta dallo sfruttamento.
Nel frattempo, la fiscalità fa un passo avanti, seguita – forse – dalla società. Il futuro del sex work in Italia non sarà semplice, ma potrebbe essere finalmente trasparente, giusto e umano, se affrontato con coraggio e visione. Perché ogni economia, anche quella del piacere, ha diritto a regole, dignità e giustizia.