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giovedì 30 Ottobre 2025

Indennità obsolete e welfare aziendale: quando i benefit restano tassabili secondo l’Agenzia delle Entrate

Nel panorama in continua evoluzione delle politiche retributive aziendali, molte imprese stanno valutando la possibilità di sostituire indennità obsolete con soluzioni più moderne, come i piani di welfare aziendale. Questa strategia, oltre a semplificare la busta paga, viene spesso vista come un’opportunità per ottimizzare il carico fiscale. Ma attenzione: trasformare un compenso monetario in benefit non è sufficiente per ottenere l’esenzione fiscale.

Con la Risposta all’interpello n. 195/2025, l’Agenzia delle Entrate ha ribadito un principio fondamentale: se il benefit deriva da una voce retributiva pregressa, anche se soppressa, esso mantiene la sua natura di reddito da lavoro dipendente e, di conseguenza, è soggetto a tassazione ordinaria. Questo vale anche nel caso in cui l’erogazione avvenga tramite scelta individuale tra importo in denaro o welfare.

In questo articolo analizziamo nel dettaglio il contenuto dell’interpello, la normativa di riferimento e le implicazioni pratiche per le imprese, offrendo esempi concreti e strategie fiscali corrette per strutturare un piano welfare efficace e sicuro dal punto di vista tributario.

Indennità obsolete convertite in welfare

Nel tentativo di modernizzare i pacchetti retributivi e aumentare la soddisfazione dei dipendenti, sempre più aziende stanno abbandonando vecchie voci stipendiali, definite ormai “indennità obsolete”, per introdurre soluzioni di welfare aziendale più flessibili e personalizzabili. Ma attenzione: la semplice trasformazione di un elemento monetario in un benefit non lo rende automaticamente esente da imposte.

È questo il punto centrale chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta a interpello n. 195 del 2025, che affronta un caso concreto di conversione di indennità monetarie (soppresse da un contratto collettivo nazionale) in forme alternative di compenso, tra cui il welfare aziendale. In base all’accordo sindacale oggetto dell’interpello, i dipendenti in forza al 31 dicembre 2024 potevano scegliere tra:

  • un importo fisso annuo, ad personam e non rivalutabile, equivalente al 100% della media percepita negli ultimi 5 anni;

  • oppure la conversione in benefit di welfare aziendale, con un vantaggio aggiuntivo: il 105% o 110% del valore dell’indennità a seconda della sua tipologia.

L’obiettivo dell’azienda era duplice: semplificare la struttura retributiva e migliorare la fidelizzazione dei lavoratori attraverso strumenti di compensazione più moderni. Tuttavia, la risposta dell’Agenzia ha messo in evidenza un aspetto cruciale: i benefit derivanti da questa conversione non godono dell’esenzione fiscale prevista per il welfare aziendale secondo l’art. 51 del TUIR, poiché mantengono la natura di reddito da lavoro dipendente.

Quadro normativo 

Nel rispondere al quesito posto dall’azienda, l’Agenzia delle Entrate ha richiamato uno dei capisaldi della fiscalità del lavoro dipendente: il principio di onnicomprensività del reddito, sancito dall’articolo 51, comma 1, del TUIR. Questo principio stabilisce che costituisce reddito imponibile qualsiasi somma o valore percepito dal dipendente, a prescindere dalla forma in cui viene erogato. Rientrano quindi nella base imponibile anche i beni e servizi concessi dal datore di lavoro.

Tuttavia, il medesimo articolo prevede delle importanti eccezioni: i commi 2 e 3 dell’art. 51 escludono dalla tassazione alcune categorie di benefit (come buoni pasto, assistenza sanitaria, viaggi premio, ecc.), ma solo a determinate condizioni. La principale è che questi benefit non siano concessi in sostituzione di elementi monetari della retribuzione e che siano distribuiti in modo uniforme alla generalità o a categorie omogenee di dipendenti.

Proprio su questo punto si è concentrata la risposta dell’Agenzia nell’interpello 195/2025, ribadendo quanto già affermato nella risoluzione 55/E del 25 settembre 2020: la conversione opzionale di premi, indennità o altri emolumenti in welfare aziendale non può accedere al regime di esenzione, se tali importi derivano da voci retributive in senso stretto. Il motivo? La natura sostitutiva del benefit, che fa sì che esso mantenga il proprio carattere retributivo e, quindi, imponibile ai fini IRPEF.

Il diniego dell’Agenzia

Nel caso esaminato, l’Agenzia delle Entrate ha espresso un chiaro diniego alla possibilità di considerare esenti da tassazione le somme convertite in welfare aziendale. Il punto chiave risiede nella natura retributiva originaria delle indennità soppresse. I lavoratori, infatti, potevano scegliere se ricevere un’erogazione monetaria “ad personam” oppure optare per un controvalore in beni e servizi. In entrambi i casi, però, si trattava della stessa somma che in passato costituiva retribuzione fissa.

Questa facoltà di scelta individuale, secondo l’Agenzia, è incompatibile con le finalità delle disposizioni agevolative contenute nei commi 2 e 3 dell’art. 51 del TUIR. Tali norme, infatti, richiedono che i benefit siano concessi alla generalità o a categorie omogenee di dipendenti, e non su base volontaria, come accade nel caso di conversione facoltativa di un importo in denaro.

Non solo: l’Agenzia esclude anche l’applicabilità del regime agevolato previsto dalla Legge di Stabilità 2016 (Legge n. 208/2015). Questo beneficio si riferisce alla sostituzione di premi di risultato con misure di welfare, ma solo se legati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione. Nel caso oggetto dell’interpello, invece, si trattava di indennità eliminate per obsolescenza, non correlate a performance o obiettivi aziendali.

Alla luce di queste considerazioni, l’Agenzia ha concluso che anche i benefit erogati a fronte della soppressione di voci retributive obsolete mantengono la natura di reddito da lavoro dipendente. Pertanto, essi devono essere tassati secondo le regole ordinarie dell’art. 51, comma 1 del TUIR, senza possibilità di accesso ai regimi agevolati previsti per il welfare aziendale “puro”.

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Implicazioni pratiche

La risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate rappresenta un segnale importante per tutte le aziende che stanno ripensando la propria struttura retributiva alla luce delle nuove esigenze organizzative e del benessere del personale. Sempre più imprese, infatti, valutano la possibilità di trasformare indennità fisse, premi obsoleti o voci accessorie in benefit di welfare aziendale, allo scopo di semplificare le buste paga, fidelizzare i dipendenti e ridurre l’impatto fiscale e contributivo. Tuttavia, la chiave di lettura dell’interpello 195/2025 impone un cambio di approccio.

Il principio ribadito è chiaro: il semplice passaggio da una somma monetaria a un benefit non cancella la natura retributiva dell’importo originario. Di conseguenza, se l’intervento aziendale si limita a “riciclare” vecchie indennità sotto forma di welfare, con scelta opzionale per il lavoratore, non si potrà accedere ai vantaggi fiscali previsti dal TUIR. L’importo continuerà a essere tassato come reddito da lavoro dipendente, esattamente come accadeva prima della conversione.

Questo significa che per realizzare un piano welfare fiscalmente efficiente, le imprese devono progettare strumenti autonomi, scollegati da elementi retributivi pregressi e rivolti alla generalità o a gruppi omogenei di dipendenti. È fondamentale anche evitare la formula della conversione facoltativa, che viene vista dall’Agenzia come una semplice opzione tra due forme equivalenti di retribuzione: una in denaro, l’altra in natura.

Strategie fiscali legittime

Alla luce dell’interpretazione restrittiva dell’Agenzia delle Entrate, le aziende che desiderano sfruttare appieno le agevolazioni fiscali del welfare aziendale devono seguire criteri ben precisi. Non è sufficiente “etichettare” una somma come welfare: ciò che conta è la natura dell’erogazione, la modalità di assegnazione e il legame (o l’assenza di legame) con voci retributive pregresse.

In primo luogo, i benefit devono essere aggiuntivi rispetto alla retribuzione ordinaria, e non sostitutivi di importi già maturati o stabiliti da contratto. Questo è un punto fermo della giurisprudenza e della prassi fiscale: ogni forma di “conversione” facoltativa mina il presupposto dell’esenzione. I benefit, per godere del regime agevolato, devono essere erogati direttamente dal datore di lavoro, e non derivare da una scelta del dipendente tra opzioni equivalenti.

In secondo luogo, per rientrare nelle esenzioni previste dall’art. 51, commi 2 e 3 del TUIR, è necessario che i benefici siano concessi alla generalità dei dipendenti o a categorie omogenee, e non su base individuale. Questo garantisce l’uniformità del trattamento e rafforza la funzione sociale del welfare aziendale.

Infine, le aziende possono utilizzare in modo vantaggioso gli strumenti introdotti dalla Legge di Stabilità 2016, che consente di convertire i premi di risultato in welfare, a condizione che siano collegati a obiettivi di produttività, efficienza o innovazione. In questi casi, l’esenzione è ammessa e consolidata, anche con la possibilità di incrementare il valore del premio mediante benefit.

Welfare autentico o retribuzione mascherata

Uno degli aspetti più delicati nella progettazione di piani di welfare aziendale è saper distinguere tra interventi autenticamente orientati al benessere dei dipendenti e semplici strumenti di gestione del costo del lavoro travestiti da welfare. È proprio questa differenza che determina se un piano può beneficiare del regime fiscale agevolato o se, invece, le somme vanno tassate come normale retribuzione.

Nel caso trattato dall’interpello 195/2025, l’Agenzia delle Entrate ha evidenziato come la scelta individuale del dipendente tra una somma in denaro e un controvalore in benefit sia un indizio inequivocabile di natura retributiva, anche se la forma dell’erogazione cambia. In altre parole, se il lavoratore può scegliere, non si tratta di un welfare “puro”, ma di una retribuzione mascherata.

Il welfare autentico, invece, è progettato per rispondere a bisogni sociali e familiari, è offerto in modo uniforme e non nasce come alternativa a voci monetarie. Include servizi come l’assistenza sanitaria integrativa, il rimborso per l’educazione dei figli, il trasporto pubblico, i buoni acquisto per beni essenziali, e così via. Questi benefit, se strutturati correttamente, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51 del TUIR.

Ignorare questa distinzione può portare non solo a perdita dei vantaggi fiscali, ma anche a rischi sanzionatori per errata applicazione del regime agevolato. Per questo, ogni intervento in ambito welfare deve essere attentamente valutato, preferibilmente con il supporto di un professionista, per evitare che l’operazione venga considerata elusiva o impropria dal punto di vista tributario.

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Come documentare un piano welfare

Per garantire la legittimità fiscale di un piano di welfare aziendale, non basta avere le migliori intenzioni: è indispensabile predisporre una documentazione chiara, coerente e trasparente. Una progettazione carente o ambigua, anche se in buona fede, può esporre l’azienda a rischi di accertamento e contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate o degli enti previdenziali.

Il primo elemento fondamentale è l’accordo aziendale o sindacale che istituisce il piano: deve essere redatto in forma scritta, firmato dalle parti coinvolte e, se possibile, depositato presso le sedi competenti.

In esso devono essere chiaramente specificati:

  • i destinatari (generalità o categoria omogenea di dipendenti),

  • la tipologia dei benefit erogati,

  • le modalità di fruizione,

  • l’assenza di facoltà di conversione individuale da parte del dipendente.

Oltre all’accordo, è consigliabile predisporre un regolamento aziendale interno, che descriva nel dettaglio i criteri di accesso, i limiti di spesa, le piattaforme utilizzate (se digitali) e le eventuali scadenze. Questo documento aiuta a dimostrare la trasparenza dell’intervento, sia in caso di controlli fiscali sia per tutelare l’equità tra i lavoratori.

Infine, ogni erogazione di welfare deve essere opportunamente tracciata: i benefit devono risultare da documentazione contabile, da cedolini paga (in forma distinta dalla retribuzione monetaria) o da fatture emesse da fornitori accreditati. In caso contrario, l’Agenzia potrebbe considerare tali erogazioni come retribuzioni in natura imponibili.

Contrattazione collettiva 

La contrattazione collettiva, sia a livello nazionale che aziendale, gioca un ruolo centrale nello sviluppo di politiche retributive e di welfare. Tuttavia, non sempre un accordo sindacale è sufficiente a garantire il trattamento fiscale agevolato dei benefit, come dimostra il caso analizzato nella risposta all’interpello n. 195/2025.

Nel caso specifico, l’azienda si era mossa nel pieno rispetto della prassi sindacale, firmando un accordo con le rappresentanze dei lavoratori per sostituire alcune indennità monetarie obsolete con una doppia opzione: somma fissa “ad personam” o benefit di welfare aziendale. Ma, nonostante la validità contrattuale dell’accordo, l’Agenzia delle Entrate ha negato l’applicazione del regime di esenzione, sottolineando che la fiscalità non si determina esclusivamente sulla base della contrattazione, ma in funzione della natura e della funzione del compenso.

Questo principio è coerente con quanto già stabilito in precedenti orientamenti: un contratto collettivo non può trasformare, da solo, una retribuzione imponibile in una prestazione esente, se mancano i presupposti previsti dalla legge fiscale, in particolare dall’art. 51 del TUIR. Ciò vale anche quando l’accordo è volto a “modernizzare” la struttura retributiva.

In sintesi, la contrattazione collettiva è uno strumento prezioso per definire il quadro operativo del welfare aziendale, ma non può superare o derogare alle norme tributarie. Per evitare errori, è fondamentale che i contenuti degli accordi siano coerenti con le condizioni fiscali richieste dalla normativa, specie in tema di generalità dei destinatari, non sostitutività, e finalità sociali dei benefit.

Welfare premiale e welfare sostitutivo

Per evitare equivoci e interpretazioni errate, è essenziale distinguere in modo netto tra welfare premiale e welfare sostitutivo, due approcci molto diversi sia nella logica che nel trattamento fiscale. Capire questa distinzione è cruciale per strutturare un piano welfare che sia non solo efficace, ma anche fiscalmente corretto.

Il welfare premiale è quello previsto dall’art. 1, commi 182 e seguenti, della Legge di Stabilità 2016 (legge n. 208/2015), che consente ai dipendenti di convertire i premi di risultato (collegati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione) in beni e servizi di welfare aziendale. In questi casi, se rispettati i requisiti, il benefit può essere interamente detassato e esente da contributi, rappresentando una forma di compensazione particolarmente vantaggiosa.

Il welfare sostitutivo, invece, si verifica quando un’azienda elimina una voce retributiva fissa e la sostituisce con un benefit, magari maggiorato del 5% o 10%. Anche se l’operazione può sembrare vantaggiosa per il lavoratore, dal punto di vista fiscale non vi è alcun beneficio: trattandosi di una mera conversione di un elemento già considerato reddito, il benefit mantiene la sua imponibilità fiscale e contributiva.

Nel caso dell’interpello 195/2025, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che la conversione di indennità “obsolete” in benefit, anche se prevista da un accordo sindacale, non rientra tra i premi produttività e pertanto non può essere trattata come welfare premiale. La conclusione è netta: non basta cambiare la forma del compenso per ottenere esenzioni, bisogna cambiarne la natura.

Esempi pratici 

Comprendere la normativa è fondamentale, ma ancora più utile è vedere come applicarla correttamente nella pratica aziendale. Un piano di welfare ben strutturato non solo consente di migliorare il clima organizzativo, ma permette anche un risparmio fiscale reale per azienda e dipendente. Vediamo alcuni esempi efficaci, conformi all’art. 51 del TUIR e alle interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate.

1. Rimborso spese scolastiche

Un’azienda può prevedere il rimborso delle rette scolastiche per i figli dei dipendenti, incluse le mense, i servizi di trasporto scolastico e i libri di testo. Questo tipo di benefit è esente da tassazione, purché erogato alla generalità o a categorie omogenee e senza possibilità di conversione in denaro.

2. Convenzioni sanitarie integrative

Molte imprese attivano polizze sanitarie o convenzioni con strutture mediche private. I costi sostenuti per l’assistenza sanitaria integrativa sono interamente deducibili e non concorrono a formare il reddito da lavoro, a patto che siano offerte senza distinzione individuale.

3. Buoni spesa e gift card entro i limiti di legge

I cosiddetti “fringe benefit” come buoni carburante, buoni spesa o gift card, fino al limite annuo di 1.000 euro (o 2.000 in presenza di figli a carico, secondo la normativa vigente nel 2025), sono completamente esenti da IRPEF e da contributi, se assegnati senza opzione alternativa in denaro.

4. Progetti di benessere aziendale

Alcune aziende promuovono piani più ampi che includono attività culturali, ricreative o sportive, spesso tramite piattaforme di flexible benefits. Se ben documentati, questi interventi rientrano tra i benefit esenti previsti dal TUIR, a condizione che non siano sostitutivi di elementi retributivi pregressi.

Questi esempi dimostrano che un welfare aziendale efficace e fiscalmente efficiente è possibile, ma solo se progettato nel rispetto delle regole: niente conversioni, niente opzioni individuali, ma prestazioni a finalità sociale per tutti o per gruppi omogenei.

Conclusione

Il caso analizzato con la risposta all’interpello n. 195/2025 ci offre una lezione chiara: non ogni iniziativa di welfare aziendale può godere automaticamente delle esenzioni fiscali previste dal TUIR. La trasformazione di indennità obsolete in benefit, pur motivata da logiche organizzative e sindacali condivisibili, non basta a modificare la natura giuridica dell’erogazione. Se il benefit rappresenta la semplice alternativa a una retribuzione monetaria già maturata, continuerà a essere tassato come reddito da lavoro dipendente.

Per sfruttare realmente le potenzialità del welfare aziendale – in termini sia di benessere del personale che di ottimizzazione fiscale – è necessario adottare un approccio strutturato, conforme ai vincoli normativi.

Ciò significa:

  • evitare la sostituzione di voci retributive pregresse;

  • erogare i benefit a categorie omogenee o alla totalità dei dipendenti;

  • documentare in modo trasparente ogni fase del piano;

  • ricorrere, dove possibile, alla conversione dei premi di risultato in welfare premiale, secondo la Legge di Stabilità 2016.

In definitiva, il welfare aziendale non è un semplice strumento di risparmio fiscale, ma un vero e proprio investimento nella qualità del lavoro. Se correttamente implementato, può rappresentare un vantaggio competitivo per l’azienda e un beneficio concreto per i lavoratori. Ma se mal progettato o utilizzato in modo improprio, può trasformarsi in una fonte di rischio fiscale e sanzionatorio.

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